Vi ho detto che ci metto un po’ nelle cose, giusto?
Giusto.
Quindi nel periodo in cui ho scoperto che Adele stava per arrivare, mi sono portato avanti per non farmi trovare impreparato e ho fatto qualche ricerca online su quale fosse la fase più difficile dei figli.
I risultati portavano verso quella fascia d’età che va dalla preadolescenza all’adolescenza piena.
C’era solo un problema: quella fascia è variabile.
Ai miei tempi era dai 14 ai 18, poi dai 12 ai 16, ora qualche luminare parla di 10-11 anni fino a 18.
Quindi ho fatto bene a informarmi per tempo.
Ho deciso di lanciarmi su qualche video per recuperare best practice e sono finito in una spirale di contenuti psicologici, pedagogici e psichiatrici come un adolescente entra in un vortex di video di gatti che ballano e compilation di cadute.
Instagram, all’inizio. Poi, per darmi una ventata di fraschezza, anche TikTok.
Mi piace pensare che mentre altri cinquantenni si iscrivevano a corsi di ballo latino o cercavano di capire come funziona lo SPID, io studiavo l’adolescenza. Adele non era ancora nata, ma volevo già essere sul pezzo.
Era già successa una cosa del genere qualche mese prima: quando ho visto il test di gravidanza positivo, la sera stessa ho fatto binge watching di un corso pre-parto su YouTube.
Ho scoperto che c’è un intero sottobosco professionale che vive (e prospera) parlando di figli che non sono i loro. Gente con migliaia di follower, dizionario emotivo a memoria e voce suadente, che ti spiegano come affrontare la tempesta dell’adolescenza con serenità, empatia e una buona connessione Wi-Fi.
Mi sono appuntato un paio di cosette qua e là, ve le condivido.
Le scuole di pensiero
C’è la corrente dei neurofanatici, quelli che ti dicono che il cervello dell’adolescente è come un cantiere a cielo aperto.
Funziona a intermittenza, va in cortocircuito con lo zucchero e ha bisogno di empatia, proteine e pochissimo giudizio. Il genitore, in questa visione, dovrebbe essere una sorta di coach zen che accoglie senza reagire, ascolta senza correggere, suggerisce senza insistere.
Avete presente Gandhi?
Ok.
Aggiungetegli il mutuo.
Ecco, più o meno così.
Poi ci sono gli anti-genitori, che partono da un presupposto chiaro: tu sei il problema. Il tuo modo di crescere, di parlare, di reagire.
Hai imparato dai tuoi genitori? Male.
Hai cercato di fare il contrario? Peggio.
Tu “sei come sei”? Cerca di cambiare.
Sei cambiato? Non sei più quello di una volta.
(Questa era una semi-citazione, scusate è entrata nel flusso di scrittura…)
Tutto quello che fai, a quanto pare, ha un impatto negativo su tuo figlio. Secondo loro l’unico modo per non rovinare l’adolescente è non toccarlo, non guardarlo, non rivolgergli la parola.
Esserci, ma senza esserci.
Una specie di influencer dell’affetto: ti vedo, ma non ti invado.
Ti parlo, ma solo se mi tagghi.
Una sotto-categoria di questi è quella degli evangelisti della vulnerabilità, che ti spiegano quanto sia importante che tu esprima i tuoi sentimenti con delicatezza. Devi ammettere i tuoi limiti, piangere davanti ai tuoi figli, raccontare le tue insicurezze. Perché solo così impareranno a fare lo stesso.
O forse diventerai la loro vittima sacrificale preferita (n.d.a.)
C’è poi la figura mistica del pedagogista zen, quello che ti insegna a “stare nel conflitto senza giudizio”. Lui non risolve, non interviene, non grida.
Respira.
Annuisce.
Dice cose tipo: “dovresti offrire contenimento emotivo”, mentre tuo figlio urla: “TI ODIO!”.
E tu gli hai solo chiesto se voleva una mela.
Una volta con mia moglie (che ammetto essere più in là dell’adolescenza) ho provato a stare nel conflitto senza giudizio.
Mi sono addormentato sul divano mentre aspettavo che il karma sistemasse la situazione.
Nel team di supporto ai genitori di adolescenti, non mancano i colleghi secchioni. Quelli che hanno seguito corsi, letto articoli, fatto riassunti colorati con l’evidenziatore e vogliono condividere.
Purtroppo.
Di solito hanno account TikTok o Instagram seguitissimi e il consiglio che forniscono più di frequente è: “fate domande aperte per stimolare il dialogo”.
Il mio amico Fabio ha una figlia di 14 anni.
Ha provato a fare una domanda aperta.
“Come ti senti oggi?”
Risposta: “Mollami”.
Fine del dialogo stimolante.
Poi ho trovato Lui
Proprio quando pensavo di dover imparare a memoria l’intero Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali per prepararmi all’adolescenza di Adele, che è arrivato il colpo di scena.
O meglio: mi sono ricordato che non serve cercare un nuovo guru, perché il mio guru c’è sempre stato.
Non ha follower.
Non è su TikTok, è direttamente su WhatsApp.
Nessun filtro, nessuna sigla accademica, messaggi vocali da 18 secondi, di cui 10 di pause e digestioni incontrollate e 8 di verità sparate con la grazia di un cavatappi.
Lui non ha una teoria.
Ha due figli adolescenti e un talento naturale per dire la cosa giusta nel momento esatto in cui smetti di volerla sentire.
Fausto Rovelli aka Il Rove.
Calma olimpica, voce profonda dietro una sigaretta e una birra che si scambiano sulle sue labbra come il cambio della guardia di Buckingham Palace.
Una sera, mentre gli spiego con un filo di entusiasmo tragico che sto studiando in anticipo, che Adele è ancora piccola ma voglio essere pronto, voglio capirla perché voglio riuscire a costruire un ponte invece che una trincea.
Lui toglie la sigaretta, butta un po’ di fumo di lato.
Beve.
E poi, con la solennità laica di chi ha già visto la battaglia da vicino, mi dice: